LA CITTA’ METAFISICA

Palermo, Palazzo Ajutamicristo, 2019

 
 

Axis mundi

Vidi una volta a Palermo costruire un mandala. Artefici dell’evento furono quattro monaci tibetani ospiti, insieme al Dalai Lama, di Nadia Barbera, che li aveva invitati nella nostra città a discutere di buddismo e delle sue molteplici epifanie. Seduti, con le gambe incrociate e a specchio l’un con l’altro, in modo da iscriversi idealmente in un quadrato; vestiti, inoltre, con una tunica gialla, la testa rasa e al fianco la ciotola del mendicante, con gesti pacati essi manipolavano terre colorate, lasciandole poi defluire fra le dita all’interno di un recinto circolare, che lentamente assumeva forma di universi ruotanti e di pianeti. Per conseguire una completa concentrazione, il loro corpo restava immobile e il respiro lungamente trattenuto sembrava precipitarli nello stato ipnotico di chi ha ormai raggiunto le soglie del caos. Soltanto rendendosi pietra, il loro fragile involucro poteva così resistere al vorticare insidioso del mondo increato, cui si provavano di restituire una forma formante che li avrebbe guidati, al di sopra dell’esistenza grama e della cattiva sorte, sino ai cieli disincarnati, allo stesso modo che, da uno scoglio riarso, talvolta tra i venti s’invola un bianco uccello dalle grandi ali. Questa immagine, che dopo molti anni mi torna vivida alla memoria, è suscitata in me dall’operare di un’artista contemporanea, Paola D’Amore, la quale in solitudine meditando sulla transitorietà delle cose, sull’instabilità dei nostri corpi e della nostra mente, applicando un rituale severo, su grandi superfici lignee elabora topografie di luoghi immaginari, città metafisiche, cosmici spartiti musicali, colonne colorate che presidiano lo spazio e lastre sonore in rame dai bagliori del fuoco, utili a ridestare i nostri sensi torpidi e a iniziare a una visione totalmente rinnovata. Questo, anche a causa della sua tendenza, oggi del tutto inedita, che consiste nell’introdurre lo straordinario, l’unico, il singolare, oltre che nell’intero universo, persino nel vivere feriale che abitualmente pratichiamo. Allo stesso modo, camminando per le vie delle città di tempo in tempo da lui abitate, Pitagora udiva l’universale armonia delle sfere e degli astri, come testimonia Empedocle, quando afferma: “C’era un uomo di straordinaria sapienza, che possedeva ricchezza inusitata d’ingegno, e valentissimo era in opere varie e sapienti; sì che quando tendeva con forza la mente, con facilità ciascuna di tutte le cose scorgeva, che sono nel corso di dieci, di venti età umane”. Si manifestano così, in Paola D’Amore, Le Città Metafisiche, il cui modulare è l’uovo, da cui si evidenziano le più antiche cosmogonie, ritratte nella complessità delle loro infinite determinazioni; allo stesso modo che, nel mondo ritenuto un tempo prelogico, uova circolari, ovali, ellittiche in realtà costituivano i simboli compiuti della rigenerazione e della rinascita. Mentre uova gelatinose, depositate dai pesci e dalle rane, rilucendo nelle acque poco fonde, a loro volta suscitavano trascendenti emozioni, quelle degli alchimisti, ad esempio, quando chiamavano il tuorlo d’uovo “punto del sole”, infinitesimale e invisibile, dal quale però trae origine ogni essere vivente. Sfaccettature che già si evidenziano nella struttura medesima dell’uovo che, posto di traverso, è fragilissimo, infrangendosi alla minima pressione; posto dritto ha bisogno del martello. Nell’opera di Paola, non casualmente, dunque, alcuni di essi sono dritti, altri riversi, a indicare la persistenza e il crepuscolo che sovrastano le nostre città, e noi con esse, che in un lampo trascorriamo dalla piena fioritura alla improvvida e desolante maceria. Alternanze che rinveniamo nelle opere che compendiano la Miniera di Rame, tra le quali sbalzano al nostro sguardo cinque figure coniche, che volte in basso si cangiano in trottola, giocattolo caro a Pitagora e che, nel loro vorticoso ruotare, perennemente contessono il divino e il terrestre, i cicli dell’esistenza e il tetragono mondo sotterraneo, sulfureo e caldo, grembo della vita. Con la punta in alto, piramidale, esse alludono, invece, al fuoco senza fumo che distillando la feccia luttuosa, si assimila a un vino nuovo che disperde i morti. Il tutto infine è compendiato dalle tre lastre metalliche che mostrano le infinite metamorfosi del sole, monarca partorito dal suo trono di tenebre il quale, nell’ultima sua incarnazione, reca in dono la pura e fecondante scaturigine della luce. Di forte ispirazione sono ancora per me Boogie-woogie, titolo tratto da una delle rare opere dionisiache di Mondrian, il quale agisce sui colori, come Paola sui cubi e le sfere, al ritmo indiavolato d’una orchestra jazz, ascoltata durante un suo viaggio in America; e Dittico, dove le forme geometriche usate, e i listelli, sembrano evocare in partitura le note silenti d’una musica delle sfere che incanta e pacifica. Ma è tempo adesso di muovere lungo la spirale che ci riporta alle origini di questo scritto, e dunque alla costruzione del mandala tibetano. Ritroviamo così i quattro monaci che, ultimato il loro enigmatico rito, lentamente sollevano lo sguardo sugli astanti e li vedono chiusi nel loro particolare, ignari dell’evento numinoso cui avevano assistito, commentare con battute, che vorrebbero essere salaci, lo splendido cerchio ai loro piedi. Senza piegare le gambe, chinandosi invece sino a toccare con la testa il suolo e soffiando alternativamente con forza, i monaci d’improvviso sollevano, dal mandala che si svuota, una densa nube che, libera e fluttuante, quasi fosse un arcobaleno, svanisce presto nei cieli del crepuscolo turchino; mentre, con incedere lento, scandito dal suono cadenzato delle campanelline di bronzo, anch’essi , insieme alle cromie planetarie suscitate, infine si dissolvono nel nulla. Questa singolare vicenda, destinata forse all’oblio, torna invece attuale nell’ultima opera di Paola D’Amore, Il sogno della Grecia,da me suggerita come prezioso omaggio alla nostra patria ideale, della quale la Sicilia è, per la qualità dei reperti innumerevoli che possiede: i templi, i teatri, le statue, i mosaici, le monete, sua erede legittima nel Mediterraneo. Scopro così che questo lavoro di Paola, più che a un plastico sulla classicità, s’ispira con potenza evocativa a un mandala, appunto, con la sfera – omphalos al centro, contornata di figure geometriche, fra le quali i cubi-abitazioni, che qui però assumono aspetti di dadi, dal cui getto si giocano a sorte i destini dei popoli e delle loro imprese. Mandala che, come è noto, adempie, per chi ne osservi le regole, a una duplice funzione: equivalendo, disegnato a terra, a un labirinto che prevede, oltre la dispersione, un rito sicuro di percorrimento e scoperta; cui si aggiunge il suo compito salvifico di protezione dalle forze ostili che ci assediano. Non è pertanto un caso se il mandala tende poi sempre a costituirsi come una serie di cerchi concentrici – che nel sogno diventano sfere – in tal modo delineando una imago mundi e, al tempo stesso un’arca nella quale racchiudere l’intera umanità, persino nelle sue forme più umili, che nel temenos fortificato annulla la propria morte, se essa altro non è se non il risultato della nostra idifferenza di fronte alla grande opera, che sola ci rende immortali. Persino il colore, in questo viaggio iniziatico, ha una chiara funzione apotropaica dominante: anche se – diceva Goethe – “ogni filosofo vede rosso, quando ne sente parlare”. E qui per colore non si intendono le velenose tinte sintetiche, usate con leggerezza da costruttori e tecnici e professionisti di vario genere; bensì “il colore estetico”, ancorato alla memoria, fatto di tinte acquarellate, e rese smunte dall’uso e dagli sguardi: “i colori primitivi, insomma, ricreati nel rovescio della fantasia moderna” (Manlio Brusatin). “Nota bene una cosa” – aggiungeva Gustave Moreau – “Tu devi pensare attraverso il colore […]. Se non hai immaginazione, esso non sarà mai bello. Il colore deve essere pensato, immaginato, sognato”. E macerato, con pigmenti vivi, esaltati da terre che all’alba si raccolgono in montagna, roridi ancora di rugiada. Oppure sfalsato rispetto alla linea, come nei ritratti di Warhol, in modo da creare uno stato formale di perenne e vitale agitazione percettiva. O assimilata a una musica lieve e appassionata, che per Liszt, e per Baudelaire che lo cita, uguaglia “un uccello dagli splendidi colori plananti sugli orrori di un abisso”. O, infine, all’abbaglio della calce, “associata all’abitazione […] fin dalla nascita dell’umanità” (Le Corbusier). Un colore, in conclusione, che ho voluto per il sogno della Grecia e che, simile a una delicata cosmesi, illeggiadrisce il volto e le opere delle donne, emule di un loro antico sogno, che vuole su di sé raffigurare, con pochi tratti, il mito dell’eterna giovinezza. Aurelio Pes

 
 
 
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