Frammenti del tempio d’oro
Taormina, 2020
Alzate l’architrave, carpentieri -
A Sebastiano Tusa, testimone del tempo
Karl Rosenkranz, a proposito delle priorità di pensiero e delle reciproche influenze tra Hoelderlin, Schelling e Hegel, afferma: “Già nel febbraio del 1795, Hoelderlin aveva scritto nel libro di famiglia di Hegel che “en Kai pan”, l’uno e il tutto, era un suo simbolo”. In correlazione, infatti, con questo principio, Hoelderlin non avrebbe più cercato nella natura il divenire e continuo variare delle sue raffigurazioni, bensì le forze basiche che formano l’essere e che si chiamano aria luce terra acqua cielo etere sole. Questo avvenimento, d’incomparabile valore estetico e metafisico, darà luogo, nella sua poesia, a un sentimento connesso all’origine del mondo, per cui l’uomo viene assunto nella natura e la natura a sua volta s’innalza a genealogia degli Dei, ritrattisi nel frattempo nell’ombra, al riparo del moderno, turpe degrado che incombe sugli esseri e le cose.
Da un simile orfismo, che guarda alla vita come a un travaglio di generazione e di morte, dal quale soltanto la bellezza potrà essere suprema liberatrice, viene così configurandosi un mondo diverso dal reale, e tuttavia concreto e in sé assolutamente oggettivo: quello delle arti, intese come ritmo, metrica, essenza di altissime leggi, che avranno il compito primario di redimerci dall’esistenza desacralizzata e di attuare il trascendimento nell’unità del tutto. Per Hoelderlin, insomma, l’antico e mai risolto dissidio tra spirito e materia, in tal modo diviene festività che forma l’anima dell’universo e l’arte è forza di coesione e compimento della natura.
Il riferimento arcaico di queste sublimi meditazioni risale peraltro all’epoca post-achea, quando cioè gli scudi bilobati di pelle di bue, e i giachi di cuoio dei primi canti dell’Iliade cedono il passo agli scudi rotondi e alle corazze, così iniziando l’età del ferro. Ché Reco e Teodoro scoprono a Samo il procedimento per fondere i metalli; e un uomo di Chio quello per piegarli, temprarli e saldarli. Cui si aggiunge l’uso della parola, non più soltanto strumento di comunicazione, bensì incantesimo, che scaturisce dalla costruzione simmetrica delle frasi, dai periodi assonanti e quasi rimati, dall’impianto calcolato per la costruzione e la libertà delle immagini, che si spingono in alto, senza peso, come in un gioco spirituale. Per quanto possa sembrare strano, è a questo mondo post-acheo che, sin dall’inizio, si rivolge per istinto Paola D’Amore. Come quel popolo, anche Paola ama il manufatto, che le consente di elaborare complesse scacchiere e mandala con quadrati, sfere, ellissi d’uova; splendidi totem evocativi dell’interezza di forma e colore del tempio greco classico; e, finalmente, tre lastre in rame, articolate nei particolari, martellate e ustionate con la fiamma ossidrica, in modo da renderle centro esplosivo di bagliori in eterna trasmutazione. E che sembrano anche indicare come il profondo respiro dei giganti, sconfitti da Zeus, ancora bolle e gorgoglia nelle oscure profondità della terra, oltre ad essere segno dell’abisso che costituiva il mondo primordiale. Ed è proprio quest’opera trina, realizzata come materia preziosa, non ancora come forma conclusa a configurare un pensiero dominante da decifrare e condurre a nuove e più consone imprese. E’ a questo punto che, nello spazio meridiano, comincia a delinearsi, prodotto dalle sapienti mani di Paola, un frammento di tempio greco, vestito dei bagliori mutevoli del rame. E attorno a questa immagine venerabile, a tornare in evidenza il segno dell’infinito; il labirinto che è il nostro destino; e il serpente-suono, che per la sua natura bifida indifferentemente annuncia il sorgere di una nuova era, o la distruzione globale di noi stessi e del mondo. Quasi rappresentazione animistica dell’universo omerico, per cui l’uomo desto, che si assopisce e muore, scende nell’Ade a condurvi un’esistenza d’ombra, simile a un soffio senza forza, o spirito vitale. Larva tra larve. Questa fase seconda, che succede alla vita, è nella mostra rappresentata dalle colonne fumanti e senza luce che avvicendano i frammenti d’oro, la cui natura altera, senza tempo, è coonestata da un intervento di Mira Tasic, che su elementi spuri, la cui esposizione avrebbe immiserito la drammaturgia della mostra, ha spiegato un prezioso pannello di stoffa, secondo canone, panneggiato alla greca. Mira è una delle maggiori esperte europee di stoffe e derivati. E tuttavia, essa non è mercante, è incantatrice. Con la vista alterata, l’ho veduta parlare con le stoffe, carezzarle e riconoscerle senza alcuna approssimazione.
Il Premio delle Nazioni di Taormina, in programma dal 18 al 21 settembre, rende particolarmente omaggio alla figura di Sebastiano Tusa, il grande archeologo scomparso in seguito a un incidente aereo, con la mostra, appunto, Frammenti del tempio d’oro” di Paola D’Amore che ha luogo al Teatro antico di Taormina e all’NH Hotel Questo avvenimento, sempre in nome di Tusa, istituzionalizzato, si ripeterà negli anni seguenti.
Un ringraziamento sentito va infine rivolto alla Soprintendenza del Mare e a Valeria Li Vigni, che la guida egregiamente, senza le quali le esperienze previste sarebbero rimaste una pia intenzione.
Per tutti noi, valgano in conclusione le parole del poeta: Il corpo di tutti gli uomini segue la morte onnipotente, ma viva rimane un’immagine dell’esistenza. Ché soltanto questo viene dagli Dei (Pindaro) Aurelio Pes